La copertina dell

De Lubac

Un maestro. Contributi per il trentennale di CL

1954 -1984

La sua vita

«La prova che si abbatte su di noi è sempre quella che, tra tutte, avremmo voluto evitare. Nel presente di Dio... la sofferenza non è eliminata, ma ha perduto il suo veleno. Non avvelena più l'anima; anzi la purifica. È divenuta messaggera non più di angoscia, ma di pace.»

Henri de Lubac, uno dei più insigni protagonisti della vicenda teologica contemporanea, nasce il 20 febbraio 1896 a Cambrai, nel nord della Francia. Di temperamento estremamente fine e sensibile, la sua vita è nondimeno attraversata, da un capo all'altro, da una incoercibile decisione di fedeltà al proprio compito, che neppure la durezza della prova - come vedremo -potrà piegare.

Entrato nella Compagnia di Gesù a Lione, nel 1911, partecipa alla prima guerra mondiale che si scatena poco dopo, non risparmiando il proprio impegno di assistenza (riporterà gravi ferite, che lasceranno un segno indelebile).

È poi in Inghilterra, dal 1919 al 1926, a compiere - sempre da studente gesuita - gli studi dapprima umanistici, poi filosofici e infine teologici (non sappiamo con esattezza se il giovane De Lubac abbia avuto lì modo di conoscere direttamente il pensiero di Newman, ma ci sembra molto probabile che, nella patria del grande Cardinale, i cui scritti saranno spesso citati da lui, gliene sia giunta eco).

Molto importanti, in questo periodo di preparazione al sacerdozio, gli incontri con tre confratelli gesuiti: p. Auguste Valensin, p. Léonce de Grandmaison e p. Joseph Huby.

Il primo gli farà conoscere Maurice Blondel, filosofo cristiano, amico di Valensin, che aveva fortemente sottolineato il legame tra il bisogno umano (filosoficamente indagabile) e la risposta del Cristianesimo; e poi due confratelli: Pierre Teilhard de Chardin, scienziato-teologo di cui parleremo in seguito, e Pierre Rousselot, il quale aveva proposto una rilettura di S. Tommaso contraria a un dualismo fede-ragione e a una concezione intellettualistica della fede.

Il padre Grandmaison aprirà al giovane studente De Lubac la ricchezza e il fascino di una concezione che si incentra interamente su Gesù Cristo, stimolandolo alla lettura personale dei Padri della Chiesa.

Infine p. Huby gli insegnerà la fondamentale importanza del nesso tra la "natura" e la "grazia" (che spiegheremo meglio più oltre) e della definitività della rivelazione di Dio in Cristo, oltre e dopo il quale non c'è più nulla da attendere, in in Lui essendoci già dato tutto.

Terminati gli studi teologici a Lione, nel 1927 viene ordinato sacerdote. Due anni dopo è già nominato professore di teologia, presso le "Facultés Catholiques" di Lione-Fourviére.

L'attività teologica di De Lubac è appunto (a differenza di quella di Von Balthasar) strettamente connessa all'insegnamento universitario. Il che da un lato gli ha permesso di formarsi una cerchia di allievi che condividevano la sua impostazione e ne avrebbero sviluppato gli intenti fondamentali (tra loro, oltre allo stesso Von Balthasar, ricordiamo Jean Daniélou, Gaston Fessard, Henri Bouillard: cioè quel gruppo di autori che sarà poi denominato della "Nouvelle Théologie"). D'altro lato, vincolando la sua riflessione a dei corsi annuali, ben determinati, ha in qualche modo impedito al suo pensiero di assumere una forma compiutamente sistematica. De Lubac stesso ne è consapevole: «Quasi tutto quello che ho scritto è nato da circostanze imprevedibili, disordinatamente, senza preparazione tecnica specifica. Nel complesso di così diverse pubblicazioni si cercherebbe inutilmente una sintesi personale».

Nonostante ciò, tuttavia, e nonostante che il carattere stesso del nostro autore, la cui grande finezza di spirito lo porta a valorizzare il più possibile anche le posizioni apparentemente più avversarie, sia sempre stato alieno da una «sistematicità chiusa», tutta la sua produzione è fondamentalmente, fortemente unitaria.

È ancora De Lubac a sostenerlo: «in questo tessuto variopinto risultato da condizioni particolari, dalle lezioni più disparate, da incarichi, da situazioni contingenti e da inviti, credo di poter scoprire la traccia di un sentiero, di un disegno che ne costituisce l'unità interna».

Lui stesso individua questo motivo unificante nella riscoperta della tradizione della Chiesa, da lui tanto amata e ammirata, e che invece molta teologia dei tempi moderni (dal XV secolo in poi) ha trascurato, in favore di un discorso puramente razionale. Significativo è, in questo senso, il sottotitolo del volumetto dedicato al suo pensiero dal suo discepolo e amico Von Balthasar «la tradizione, fonte di rinnovamento». Non a caso, pertanto, egli si fa, con altri suoi confratelli, promotore di due iniziative editoriali, miranti a riscoprire la bellezza e l'attualità della Tradizione, e in particolare dei Padri della Chiesa; si tratta della collana "Sources Chrétiennes" (che pubblicava opere dei Padri con intento non erudito ma attualizzante) e "Théologie" (opere sui Padri o sul pensiero della Tradizione in generale).

È in quest'ottica, ancora, che De Lubac, nel periodo di insegnamento a Lione, raccoglie con indefessa laboriosità un immenso materiale di riferimenti patristici e medioevali, a cui applica la propria riflessione per attualizzarli nel contesto della civiltà contemporanea. Da questo lavoro nasceranno testi di importanza capitale come Catholicisme (1938; ed. it. Cattolicismo, Jaca Book), in cui egli rivaluta l'aspetto comunionale e storico del Cristianesimo, contro un pietismo individualista e sentimentale; De la connaissance de Dieu (1941; ed. it. Sulle vie di Dio, Paoline), in cui il problema della conoscenza di Dio viene affrontato in termini esistenziali e concreti, superando quell'aspetto di astrattezza scolastica che ignora il dramma della scelta; Corpus Mysticum (1944; ed. it. Jaca Book), in cui attraverso una minuziosa indagine sul rapporto Cristo-Chiesa-Eucaristia nell'epoca patristica e medioevale recupera una concezione organica e sacramentale della Chiesa, Corpo di Cristo in senso forte, superando una ecclesiologia istituzionale e clericale; e infine Surnaturel (1946; poi rieditato in modo parzialmente rielaborato in Agostinismo e teologia moderna e Il mistero del soprannaturale, 1965), una delle opere più famose e più discusse di De Lubac.

Sarà proprio la polemica scoppiata intorno a quest'opera, a provocare i sospetti del Papa e l'allontanamento di De Lubac, nel 1950, dalla cattedra di Lione e il suo trasferimento a Parigi.

Alcuni teologi domenicani, infatti, tra cui il più autorevole e battagliero era p. Réginald Garrigou-Lagrange, molto influente negli ambienti accademici ed ecclesiastici del Vaticano, evocarono, a proposito della concezione di De Lubac sul soprannaturale, lo spettro del modernismo e del relativismo.

Era un timore che doveva rivelarsi falso, ma a fugare il quale nulla valsero le spiegazioni, peraltro lucide ed energiche, che De Lubac stesso e la schiera dei suoi discepoli - che Garrigou-Lagrange definì, appunto in tale circostanza, “Nouvelle Théologie” - fornirono agli "avversari" neotomisti; lo stesso papa Pio XII, pur senza far nomi, colpì, nell'enciclica Humani Generis -contro il modernismo - alcune idee che, a torto o a ragione, venivano connesse con la teologia dei gesuiti di Lione.

Come scrive Von Balthasar, «i dieci anni successivi divennero un calvario per De Lubac, che fu esonerato dall'insegnamento, espulso da Lione e sospinto da un luogo all'altro. I suoi libri diffamati vennero tolti via dalle biblioteche della Compagnia di Gesù e furono sottratti dal commercio» (Il padre De Lubac, Jaca Book, 1977).

Lentamente, a partire dalla fine degli anni Cinquanta (ancora sotto il papato di Pio XII, il quale negli ultimi anni lesse con cordialità alcune opere del gesuita francese), avvenne la riabilitazione di De Lubac, culminata con la sua chiamata, da parte di Giovanni XXIII, ai lavori del Concilio Vaticano II.

La suprema assise della Chiesa fece proprie molte idee e molte istanze di De Lubac, a partire dal superamento del dualismo tra Cristianesimo e vita, fino ai temi più particolari come l'ecclesiologia, il dialogo col mondo moderno, la concezione della Rivelazione e della Fede.

Ma non si trattò certo di una vittoria definitiva. Su ciò De Lubac non si era mai fatto illusioni. Lui stesso aveva scritto: «si sognano condizioni di vita che possano con naturalezza far sgorgare lo spirito. È una grande illusione. La sola esistenza possibile per Io spirito è "una vita errante e sempre minacciata"».

Se la lotta di De Lubac, negli anni anteriori al Concilio, era "contro la destra" rappresentata dal neotomismo, nel postconcilio egli dovrà preoccuparsi delle "avanguardie di sinistra", che, male intendendo il senso del dialogo col mondo, proposto dal Vaticano II, finiranno con l'assimilare il Cristianesimo al marxismo o ad altre ideologie materialistiche (Freud, Nietsche).

Contro i rischi di cedimento nei confronti dell'ateismo dilagante (cedimento mascherato da dialogo e da carità, o mimetizzato nei proclami di aspirazione alla giustizia, e nella "scelta per gli oppressi") e contro le interpretazioni riduttive del pensiero del suo amico e confratello Teilhard De Chardin, De Lubac scriverà rispettivamente Ateismo e senso dell'uomo (1968) e Il pensiero religioso del Padre Teilhard De Chardin (1964).

Ancora contro i rischi di un Cristianesimo secolarizzato, mondanizzato (svuotato, quindi, della sua sostanza) De Lubac scrive, ancora, la poderosa Posterità spirituale di Gioachino da Fiore (1979/81); in positivo, un esempio della sintesi cattolica tra umano e soprannaturale cristiano, è invece da lui additata in Pico della Mirandola che fu al tempo stesso entusiasta umanista e sincero credente.

De Lubac, nonostante l'età, segue ancora con attenzione di studioso e di uomo di preghiera la vita della Chiesa attuale. Egli ha infine visto riconosciuta la verità e l'utilità della sua opera da papa Giovanni Paolo II, che l'ha elevato, nel 1983, alla dignità di Cardinale.

La sua opera

«L'immagine del Verbo, che il Verbo incarnato restaura (...) è me stesso ed è l'altro, - ed è ogni altro. È questo punto di me stesso che coincide con ogni altro, è il segno della nostra comune origine ed è la chiamata al nostro destino comune.»

Tutta l'opera di De Lubac, abbiamo detto, pur essendo varia e molteplice, ha come motivo fondamentale la passione per la riscoperta della vivente Tradizione della Chiesa; ma il contenuto, il cuore della Tradizione - cioè delle testimonianze di coloro che hanno riflettuto, elaborato una cultura, a partire dalla propria esperienza di appartenenza al Mistero di Cristo e della Chiesa - è la centralità assoluta di tale Mistero.

Far memoria dell'Evento di Cristo e della cultura originata dall'Evento (= la Tradizione) sarà allora il metodo della Teologia; il suo contenuto poi, sarà la centralità dell'Evento: la sua logica (vedi il discorso sul soprannaturale, implicante il rapporto tra le creazione e la redenzione/deificazione), le sue modalità concrete (vedi il discorso sui Sacramenti e la Chiesa), le sue implicazioni a livello storico-profano (problema di un «umanesimo cristiano» o di una «civiltà cristiana»: Pico, Teilhard), per considerare, infine, ciò che va "contro" l'Evento (apertamente: l'ateismo, o subdolamente: il gioachimismo).

Memoria e senso del mistero

Gran parte della teologia dei tempi moderni ha subito, secondo De Lubac, una tentazione razionalista; si è concepita cioè come un discorso astratto, speculativo, su Dio, che tende a porre in secondo piano, o addirittura sullo sfondo più lontano, l'Evento storico in cui Dio si è rivelato.

La ragione che specula su Dio, prendeva così nettamente il sopravvento sulla memoria amorosa della Rivelazione che Dio stesso ha fatto di Sé, storicamente, in Cristo.

Si trattava di un primato del raziocinio, del ragionamento sulla memoria, che corrispondeva al primato, largamente diffuso nella vita della Chiesa "moderna", della ascesa umana, dello sforzo umano verso Dio, rispetto alla accoglienza di un Dono imprevedibile, della iniziativa di Dio, Lui per primo venuto verso l'uomo.

Per De Lubac, infatti, come per la più autentica Tradizione «Dio agisce nella storia. Dio si rivela per mezzo della storia» (Cattolicismo), e l'Evento storico di Gesù Cristo è la definitiva, insuperabile ed esauriente rivelazione, manifestazione di ciò che Dio è.

È su quell'Evento, che arriva a noi tramite le testimonianze della Sacra Scrittura e della Tradizione, che la teologia deve puntare il suo sguardo per comprendere, quanto le è possibile, la misteriosa Bellezza del Disegno di Dio.

Fare un discorso astratto su Dio, che prescinda dalla Sua Rivelazione, è invece presunzione temeraria (De Lubac parla, ovviamente, della teologia, e non della filosofia): è un tentativo di «sventrare i segreti di Dio», di tenere Dio «in mano», di «incapsulare Dio» in un sistema; così come hanno fatto e fanno certi «spiriti sistematici, più attenti alle loro concezioni personali che ai fatti, attraverso i quali traspare il disegno provvidenziale» (Il Mistero del soprannaturale).

Il razionalismo teologico ha infatti avuto come effetto quello di illudere l'uomo di poter «possedere» Dio in un discorso perfettamente chiaro e comprensibile; ha fatto smarrire il senso del mistero, che è invece l'humus, il clima permanente della Fede cristiana.

Dio, sottolinea De Lubac, benché resosi in qualche modo conoscibile, anzi incontrabile, all'uomo, resta nondimeno Mistero; credere di possederlo, di averne capito tutto, è in realtà averlo perso, e giocare con un idolo.

La caratteristica poi che il nostro autore vede soprattutto, nel mistero, è il paradosso. Dire mistero è dire essenzialmente paradosso. E il paradosso è una sintesi «antinomica»; la sintesi, cioè, l'unione di due realtà o aspetti, di due «polarità», che alla nostra ragione sembrano antinomici, incompatibili, contrastanti.

La realtà, quale noi la conosciamo in questa vita, che è come notte rispetto al Giorno grande dell'eternità, non può essere perfettamente posseduta, compresa (come vorrebbe il razionalismo): o è assurdo, o è mistero, cioè paradosso. E il paradosso, spiega De Lubac, è come il rovescio di un arazzo, rovescio di cui per ora dobbiamo accontentarci, e che già ci fa intravvedere il dritto. Ma il dritto lo vedremo soltanto nella piena Luce di Dio.

Il Cristianesimo è intessuto di mistero e di paradosso, cioè di «sintesi antinomiche»; pensiamo alla apparente antinomia tra la misericordia e la giustizia, tra la tenerezza e la fortezza, tra l'aspetto umano della Chiesa e il suo aspetto divino («casta meretrix»!), tra l'immanenza alla Chiesa locale e la tensione cattolico-missionaria, ecc.; per giungere a quello che per De Lubac è forse il supremo paradosso: il fatto che l'uomo sia stato creato con una certa natura finita e dotata di leggi specifiche, per essere al tempo stesso destinato a trascendere tale natura in un Fine soprannaturale e infinito.

Vedremo ora come il «razionalismo» teologico secondo De Lubac, misconoscendo proprio tale paradosso, abbia ridotto il rapporto tra Dio e l'uomo, o, per usare dei termini tecnici, il rapporto tra natura e soprannaturale.

La centralità del fatto cristiano

Uno dei temi centrali della teologia di De Lubac è appunto quello del soprannaturale. Il termine soprannaturale è di origine relativamente moderna, essendosi affermato soltanto con la teologia controriformista dell'età barocca, nel suo impegno di contrastare le idee dei protestanti.

Questi ultimi sostenevano, com'è noto, la quasi totale corruzione della natura umana, in seguito al peccato originale, al punto che l'uomo avrebbe perduto (al di fuori della Grazia del Cristo) la capacità di usare rettamente della sua ragione, che Lutero chiama «la prostituta del diavolo», e insieme la facoltà di scegliere liberamente, il «libero arbitrio». Si tratta quindi di un pessimismo radicale sulla attuale condizione umana, a cui non resta che appellarsi, e abbandonarsi, alla infinita Misericordia di Dio per i meriti della Croce di Gesù: l'uomo resta sempre fondamentalmente devastato dal peccato, che la Grazia di Cristo si limita a coprire "esteriormente", piuttosto che guarire "dall'interno".

Per contrastare questo pessimismo, i teologi cattolici, che si richiamavano quasi unanimemente a S. Tommaso, sostenevano la essenziale sanità della natura umana e della ragione, che il peccato ha sì indebolita, ma non rovinato. Nel far questo, però, secondo De Lubac, essi corsero il rischio di cadere, per così dire, nell'eccesso opposto a quello protestante: di affermare, cioè, a tal punto l'integrità e la bontà dell'ambito «naturale», da rendere quasi inutile, e comunque accessorio, il «soprannaturale», cioè il Fatto cristiano. La «natura» (cioè il mondo materiale, e l'uomo in quanto razionalmente indagabile e conoscibile) diventava così una sfera autosufficiente, e completa in se stessa.

Il «soprannaturale» (definito come «ciò che oltrepassa le capacità della natura», in pratica il Cristianesimo: la storia dell'Alleanza, il fatto di Cristo, la Chiesa, la Sacra Scrittura, i Sacramenti, la vita di grazia) era un di più, un'aggiunta alla natura; aggiunta in fondo non necessaria.

De Lubac chiama questa concezione teologica sistema della «natura pura», cioè «natura», ambito umano naturale, autosufficiente, «puro», cioè privo, non permeato, di «soprannaturale», di cristiano.

È la stessa teologia che, in sede di metodo, si definisce «razionalismo teologico», cioè cultura che si costruisce il più possibile sulle sole forze naturali della ragione, accettando sì la fede, ma come ultimo, non essenziale coronamento, un «cappello», un'aggiunta ornamentale, qualcosa che non incide sul modo di vedere e giudicare la realtà.

Una tale cultura corrisponde al tipo di civiltà sviluppatasi in età barocca: si accettava, certo, il Cristianesimo; anzi, nel caso della Spagna di Filippo II, si combatteva persino, per la Santa Fe'. Ma ormai la società, e la cultura, sia artistica sia concettuale, andava costituendosi sempre più autonomamente dalla fede, secondo leggi proprie, «puramente naturali»: l'economia secondo il criterio di un utile, non giudicato dalla solidarietà, la politica secondo regole tendenzialmente machiavelliche, inseguendo l'ideale della massima potenza, da affermarsi senza riferimento a una appartenenza comune, la cultura, entusiasta dei concetti "chiari e distinti", bandendo il più possibile la fede e il mistero. Pensiamo, ad esempio, alla pittura barocca, paragonandola all'arte medioevale: mentre quest'ultima concepiva il mondo come segno, simbolo dell'Eterno, del «Soprannaturale », eterizzando la natura, quella, invece, naturalizza il soprannaturale, ad esempio trasferendo nel Cielo le stesse leggi di prospettiva che valgono per la terra (come nelle pitture delle cupole barocche), oppure tendendo a vedere nel Cristo soltanto l'aspetto umano, naturale.

Una prima reazione a questo dualismo si verifica, in ambito cattolico, già nel secolo scorso, con la scuola di Tubinga (J.A. Mohler, in particolare) e il cardinal Newman; ma prevale ancora, nelle Università e nelle scuole ecclesiastiche, e quindi nella catechesi, nella predicazione della spiritualità, l'impostazione neotomista della «natura pura».

Si pensi, per fare ancora un esempio, al concetto di «virtù» o di «merito»: di fatto la vita morale, concepita peraltro come faccenda quasi esclusivamente personale, poggiava più sulla buona volontà che sulla Grazia; più su uno sforzo, che sulla primaria accettazione di un Dono; era l'uomo che doveva andare verso Dio, piuttosto che riconoscere la, già avvenuta, discesa di Dio in un Avvenimento storico.

Decisiva sarà, per il superamento di questa impostazione, l'opera di De Lubac. Essa, però, deve molto, a sua volta, ai lavori di altri teologi ed intellettuali che, sul finire dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, avevano aperto la strada a una concezione unitaria.

Ricordiamo anzitutto il già citato Maurice Blondel. Constatando con preoccupazione il solco scavatosi tra Cristianesimo e mondo moderno, egli ne aveva scorto una delle cause principali proprio nella teoria della «natura pura», che rendeva il soprannaturale qualcosa di aggiunto estrinsecamente.

Per Blondel invece il soprannaturale, il cristianesimo, è qualcosa di assolutamente necessario alla realizzazione umana. Anzi, il desiderio (la «esigenza») del soprannaturale è l'anima, la molla, il motore profondo e fondamentale dell'agire umano (cfr. la sua opera principale L'Azione).

Erano poi venute le ricerche di parecchi teologi, che riconoscendo l'autorevolezza di S. Tommaso d'Aquino, offrivano di questi una interpretazione rigorosamente non dualista. E lo facevano citando testi inoppugnabilmente chiari, in cui il Dottore Angelico parlava della unicità del fine ultimo dell'uomo, che è soprannaturale, e del desiderio naturale di tale fine («desiderium naturale videndi Deum»), Cominciava a delinearsi, dunque, la differenza tra tomismo (= l'autentica dottrina di S. Tommaso) e neotomismo (= le interpretazioni datene in età quattro-cinquecentesca).

De Lubac trae, infine, le conclusioni di un tale dibattuto processo, valendosi della ingente mole di materiale raccolto presso i Padri e gli Autori medioevali; egli tratta di questo tema in Surnaturel, opera che, abbiamo visto, fu molto criticata da parte neotomista.

Ma le sue affermazioni sono precise e documentate: la «natura pura» non è, come si voleva, una teoria «tradizionale»; essa è invece di origine relativamente recente (del quattro-cinquecento), e contrasta tanto con la Tradizione cattolica, quanto con quella ortodosso-orientale (cfr. Agostinismo e teologia moderna).

I suoi effetti, inoltre, si sono rivelati più dannosi che utili, avendo essa favorito il processo di secolarizzazione, sfociato infine nell'ateismo esplicito di molta cultura contemporanea. È dunque necessario tornare alla vera Tradizione, la quale, pur distinguendo, non separa natura e soprannatura, piano della Creazione (che è creazione della natura) e piano della Redenzione (che non solo sana la natura dal peccato, ma la eleva alla soprannaturale partecipazione alla Vita divina, in Cristo) (cfr. Il mistero del soprannaturale).

La natura dell'uomo è stata creata per vedere Dio. Dunque il soprannaturale non è un «di più» superfluo, ma il Senso e il Centro del creato. La realtà, materiale e umana, ha come proprio Centro il Cristo. Pertanto sono perfettamente legittimi i concetti di «cultura cristiana» e di «civiltà cristiana» (cfr. Spirito e libertà, I parte).

La «natura», l'umano, tende come al proprio compimento, al «soprannaturale», al cristiano.

Possiamo, al seguito di Von Balthasar, vedere testimoniata in De Lubac questa tensione nel suo discorso sulla Scrittura e nella sua interpretazione di Teilhard de Chardin.

Infatti come la natura tende alla grazia, così l'Antico Testamento tende a compiersi nel Nuovo, e l'evoluzione cosmico-storica nel Cristo escatologico, punto Omega di tutto il divenire.

De Lubac parla dell'esegesi biblica nel suo studio su Origene, Storia e Spirito (1950), e nella iù ampia Esegesi medioevale (1959-64) in quattro volumi.

La teologia della «natura pura», nello stesso modo in cui vedeva in Gesù Cristo soprattutto l'uomo (il «Riparatore» della natura, piuttosto che il «Deificatore»), vedeva nella Bibbia soprattutto, se non esclusivamente, la lettera, il senso storico letterale. Il tal modo la Scrittura sarebbe semplicemente la narrazione di fatti storici passati e un elenco di precetti morali, di cui però difficilmente si riuscirebbe a cogliere l'intrinseca unità. L'unico tipo di approfondimento apportabile, in tale situazione, è quello offerto dalla critica filologica e dagli altri strumenti scientifici messi a disposizione dal progresso moderno. Ma essi non possono darci di più che una migliore conoscenza del contesto storico (la «lettera») in cui è stata scritta la Bibbia.

De Lubac ritiene che, pur senza disprezzare la precisione critico-storica, la Bibbia non possa essere ridotta alla sua «lettera». La Tradizione, ancora una volta, insegna. Origene insegnava che la Scrittura è in qualche modo Corpo di Cristo, Parola di Dio. E come in Cristo vi è una natura umana e una divina, così nel suo «Corpo biblico» vi è un senso letterale (la «carne») e un senso spirituale, simbolico (lo «spirito», corrispondente alla divinità della Parola).

Così la molteplicità dei fatti, degli insegnamenti e delle profezie si concentra nell'Unità del Verbo, Gesù Cristo. L'Antico Testamento, in particolare, non resta un ammasso eterogeneo, ma ogni suo episodio e parte diventa tipo, prefigurazione promessa e simbolo del Compimento, avvenuto in Gesù Cristo, attorno a cui si dispiega esplicitamente il Nuovo Testamento.

La stessa dottrina De Lubac la ritrova in tutta la Tradizione, dai Padri, greci e latini, agli Autori medioevali.

Questa tensione di tutto verso Cristo la ritroviamo, secondo De Lubac, anche nel pensiero di Teilhard de Chardin. Non si tratta, ancora una volta, di una affermazione pacifica: per il suo stesso linguaggio, originale e non di rado ambiguo e polivalente, lo scienziato-teologo gesuita si era trovato ad essere interpretato in senso eterodosso, tanto dai suoi avversari (di "destra") quanto dai suoi pretesi, postumi seguaci (di "sinistra").

Teilhard aveva sostenuto infatti la compatibilità della concezione evoluzionista col dogma cristiano. Ma per molti, come abbiamo detto, sarebbe stato l'evoluzionismo a piegare dentro le proprie misure il Cristianesimo. Anzi l'immagine di un universo in evoluzione si attaglia al Cristianesimo, che è un Evento storico, meglio della antica concezione di un cosmo statico, immutabile, che da sempre è stato quello che è. Per la fede invece il mondo ha una storia: ha avuto un'origine (la creazione), ha un centro (l'evento di Gesù Cristo) ed è incamminato verso un Destino conclusivo (la manifestazione escatologica di Cristo glorioso, tutto in tutti).

Perciò, per Teilhard, non bisogna aver timore di accogliere il concetto di evoluzione: tutto il divenire ha il senso di una preparazione (una tensione, dunque) alla Consumazione finale in Cristo. La «cosmogenesi» (evoluzione cosmica anteriore alla comparsa della vita) prepara la «biogenesi», la quale a sua volta sfocia nella «antropogenesi» (evoluzione delle specie animali tendente a preparare la comparsa dell'uomo). La storia umana poi è interamente concepibile come una «cristogenesi», preparazione alla Pienezza cristica finale. De Lubac, in particolare, mostra come l'evoluzione per Teilhard non sia «continua», ma abbia dei precisi «salti»: dalla materia inorganica alla vita; dalla vita animale all'uomo (che quand'anche fosse derivato nella dimensione corporea, dalla scimmia, non è in questa risolvibile); dalla storia umana alla manifestazione escatologica di Cristo (che sarà sì preparata ma non determinata dal progresso umano). È salvata, inoltre, nella visione teilhardiana, sia la gratuità dell'evento salvifico, sia la libertà dell'uomo, che il progresso scientifico-tecnico non rende necessariamente migliore.

Anche qui, tutto tende verso Cristo, ma egualmente resta se stesso, nella propria distinta identità. Ancora una volta si ripresenta, con la centralità del Mistero, il paradosso del rapporto con esso.

Chiesa ed Eucaristia

Dopo il tema del soprannaturale, è forse quello della Chiesa che più polarizza la riflessione di De Lubac teologo, come testimonia anche il numero di opere dedicatevi, da Cattolicismo (1938), a Corpus Mysticum (1944), da Meditazione sulla Chiesa (1953) a Paradosso e Mistero della Chiesa (1967), da La Chiesa nella crisi attuale (1969) a Le chiese particolari nella chiesa universale ( 1971).

In Cattolicismo egli mostra, come già annuncia il sottotitolo «gli aspetti sociali del dogma», che il cristianesimo non è una religione disincarnata, fatta per l'anima soltanto; non inculca un rapporto individualistico con Dio, egoisticamente preoccupato solo della salvezza eterna della propria anima, come gli rimproverano molti intellettuali contemporanei. Ha invece un preciso spessore storico e comunitario: religione del Dio incarnato, essa salva l'uomo intero, anima e corpo, persona e collettività. E la Chiesa, che è «Gesù Cristo diffuso e comunicato», sacramento della sua presenza, è una realtà anche visibile, storica e comunitaria.

Nella Chiesa, sacramento di Cristo, gli uomini possono ritrovare quell'unità che il peccato aveva infranto e tende continuamente a minare. Essa è, da un lato, una realtà umana ben definita e circoscritta (un «gruppo» sociologicamente indagabile); d'altro lato essa è «cattolica», si estende a tutti, tutto e tutti desiderando abbracciare, per ricondurre a Colui che è l'Alfa e l'Omega, Cristo, suo sposo e capo.

Nella Chiesa, ancora, trova pieno valore la storia, che il cristiano non idolatra (come molte ideologie contemporanee), ma da cui nemmeno tende ad evadere (come il platonismo o il buddismo): ogni evento storico ha un suo senso, purché sia ricondotto al Tutto, che in qualche modo lo trascende.

In Corpus Mysticum De Lubac riguadagna una concezione organica della Chiesa. Essa non si identifica infatti con il suo apparato istituzionale, la gerarchia e il clero, come invece per lungo tempo si è rischiato di credere (ancor oggi molti, dicendo «la Chiesa», pensano al Papa e ai vescovi), né è qualcosa di puramente «mistico», spirituale, invisibile, come ha pensato il protestantesimo. Esaminando il rapporto Chiesa-Eucaristia nella Tradizione, De Lubac mostra come, per gli scrittori tradizionali, il termine «Corpo mistico» non designava, come nei tempi moderni, la Chiesa, ma piuttosto l'Eucaristia. La Chiesa era il «Corpus verum», il vero Corpo di Cristo, al quale era subordinata l'Eucaristia («Corpus mysticum»).

In altre parole, la funzione dell'Eucaristia, oltre e più che essere quella di rendere presente Cristo, era quella di formare la Chiesa, proprio la quale era, in senso molto più forte, il luogo della presenza di Cristo.

Quando invece si insisterà (a partire dal Basso Medioevo) piuttosto esclusivamente sulla presenza reale di Gesù nell'Eucaristia, si rischierà di mettere in ombra il senso della visibile comunionalità della Chiesa, veicolo della Presenza, e a favore di una devozione individualistica al Santissimo Sacramento.

Ricordiamo infine come in Meditazione sulla Chiesa e in altre opere ecclesiologiche De Lubac focalizza l'aspetto di paradosso, di «tensione polare» presente nel mistero della Chiesa. Tensione tra valore personale e valore comunitario, tra collegialità e primato dell'autorità, tra aspirazione all'Eterno e impegno nel mondo, ma soprattutto tensione dialettica, rapporto «paradossale» tra il suo essere al tempo stesso divina (sacramento della presenza salvifica di Cristo) e umana (e quindi fragile e peccatrice).

Giudizio sulla modernità

De Lubac non ha mai affrontato sistematicamente il problema della modernità, come ha fatto invece Maritain; in varie opere tuttavia emergono dei giudizi che centrano pienamente il cuore del problema.

La modernità, cioè la cultura che ha informato i tempi moderni e le sue realizzazioni concrete, non è, anzitutto, un fenomeno unitario, monolitico. C'è moderno e moderno. C'è una modernità laicista e atea, e c'è una modernità cristiana.


Se comune a entrambe è la valorizzazione dell'uomo e del suo operare storico, diverso è il loro modo di concepire tale umanesimo. È esistito infatti un umanesimo cristiano, di cui De Lubac trova un esempio in Pico della Mirandola. Egli sottrae la figura del grande umanista italiano tanto alla leggenda che ne ha fatto un tipo bizzarro e un po' frivolo, vanitosamente compiaciuto della propria memoria prodigiosa, quanto alle interpretazioni di eminenti studiosi «laici» che vedevano in Pico un precursore dell'attuale antropocentrismo prometeico ed ateo. Pico ha sì sostenuto la dignità sublime dell'uomo, ma in quanto redento da Gesù Cristo (prospettiva che, già presente nelle opere giovanili, sarà sempre più esplicitata nel suo pensiero maturo). Ha sì magnificato la libertà di scelta, ma non in quanto capacità di creare dei valori, bensì in quanto capacità di aderire a un Valore già dato oppure di cadere (nel caso la scelta sia per il male) in una degradazione, che rende l'uomo simile alle bestie.

L'umano è insomma esaltato, purché innestato nel cristiano. Il cristianesimo non ha dunque da temere che all'uomo sia dato un posto troppo importante: purché l'uomo di cui si parla sia l'uomo reale, bisognoso di Redenzione, e non un'astrazione che conduce poi alla violenza più feroce verso gli uomini quali sono in realtà.

Altro esempio della valorizzazione cristiana dell'umano e della storia lo vediamo, per De Lubac, in Teilhard de Chardin, secondo il quale, come abbiamo detto, Cristo non è solo «al di sopra», ma anche «dentro» il mondo, essendone il centro e la chiave di volta.

Perciò non vi può essere alternativa tra il Cielo e la Terra (per la Terra nella sua verità, beninteso): «una terza via si scopre: andare al Cielo attraverso la Terra» (Christologie et évolution, Parigi, 1969). E ciò appunto per l'Incarnazione del Verbo di Dio, che permane al centro dell'universo e della storia; impegnarsi seriamente con essi sarà dunque condizione necessaria per partecipare al Disegno di Dio.

De Lubac non esita a riconoscere dei germi di verità anche in una posizione tendenzialmente atea come quella di Proudhon, uno dei maggiori esponenti del socialismo «utopistico» del secolo scorso. Scandalizzato dalla mediocrità dei compromessi della Chiesa del suo tempo, il pensatore francese resta nondimeno - aspramente criticato in ciò da Carlo Marx - attaccato a un'«adorazione della Giustizia», la quale, se portata a fondo, lo avrebbe senza dubbio condotto a riconoscere Dio, fondamento della giustizia. Valore dell'uomo (Pico), della storia (Teilhard) e della giustizia sociale (Proudhon): ecco i fondamentali aspetti positivi della modernità integrabili in una sintesi culturale cristiana.


Esistono però anche aspetti irriducibilmente negativi nei tempi moderni, che tendono a distruggere il Cristianesimo.

Quello più antico ed insidioso è il gioachimismo cioè le dottrine di coloro che, al seguito di Gioachino da Fiore, abate calabrese medioevale, pur senza rifiutare il Vangelo e la Chiesa, ne prospettano un «superamento». Con Cristo, cioè, non si sarebbe ancora compiuto il Disegno di Dio sul mondo. Ci sarebbe ancora da aspettare qualcosa: dopo il Regno del Figlio, caratterizzato dall'imperfezione e dalla lotta, il Regno dello Spirito, regno di perfetta pace, giustizia e libertà su questa terra.

Al sogno gioachimita non sono estranei, per De Lubac, un Hegel e un Marx; e neppure lo sono certe teologie contemporanee, che pretendono di trovare, al di là del senso che si era sempre creduto, il «vero» senso del Vangelo e, al di là della Chiesa, fondata sulla roccia di Pietro, la «vera» Chiesa.

Ma il fenomeno negativo più appariscente e clamoroso è l'ateismo contemporaneo. Esso, nei suoi fautori e nella sua vena profonda e portante, non è un semplice anticlericalismo scandalizzato, o una vaga indifferenza religiosa, ma una cultura e un progetto totalizzante e irriducibilmente nemico del Cristianesimo (cfr. Il dramma dell'umanesimo ateo).

È dunque un errore madornale minimizzarne la portata e la pericolosità, come sembrano fare i «teologi della secolarizzazione»: l'ateismo, inoltre, pur proclamandosi umanista, porta dei frutti di morte e di disumanità, con la formazione di società totalitarie e oppressive (brutalmente, come le società fondate sul marxismo, o larvatamente, come quelle eredi del positivismo).

Il suo influsso

Nessuna cultura è neutra. La cultura di un cristiano che non vuole tradire la propria fede, o per lo meno lasciarla vegetare senza forza assimilatrice, può essere solo cristiana.

Chi ha seguito fin qui il discorso può facilmente capire come non sia ormai necessario dilungarsi a esplicitare quale sia stato l'influsso di De Lubac su certe idee forza di Comunione e Liberazione.

Penso che comunque si possano trattenere tre punti.

[1] Anzitutto il concetto di memoria (dico il concetto, e non il termine, perché quest'ultimo deve essere arrivato nel nostro vocabolario da altre vie). Come la teologia della Chiesa deve essere anzitutto memoria di Qualcosa che è già dato, che è già avvenuto (più che essere ricerca, raziocinio), così, nella fede personale del cristiano, anzi nel suo modo di pensare e di guardare a qualsiasi cosa, parte fondamentale spetta alla memoria di un Fatto accaduto e continuamente presente.

[2] Un'altra idea che il Movimento ha in qualche modo ereditato (certo non esclusivamente) da De Lubac è quella della unità tra natura e soprannaturale. Il soprannaturale, il Cristianesimo, non è qualcosa di aggiunto al naturale, all'umano, ma ne è il cuore e il centro.

Non è dunque legittimo un dualismo tra fede e ragione: esiste dunque una cultura, una mentalità cristiana; né può esservi separazione tra l'essere uomo e l'essere cristiano.

È la fede che garantisce l'integrità del pensiero (lungi dall'accecarlo) e nel tempo stesso che viene da questi «verificata» esistenzialmente.

È l'adesione alla vita della Chiesa (= al soprannaturale) che garantisce il pieno sviluppo dell'umano, tanto a livello personale, per cui la moralità non è più questione di sforzo volontaristico, quanto a livello comunitario, come giudizio e presenza nel «sociale» e nel «politico».

[3] Infine ricordiamo l'influsso forse più diretto di De Lubac: la sua ecclesiologia (Catholicisme fu letto da Don Giussani negli anni del seminario). Il teologo francese ha aiutato a riscoprire la Chiesa nella sua interezza. Essa non si riduce al Papa, ai vescovi e al clero, al suo aspetto gerarchico-istituzionale. Né è qualcosa di puramente mistico e spirituale. La Chiesa è, ha ricordato De Lubac, il Corpo di Cristo, organismo soprannaturale ma con una sua ben precisa visibilità; è una congregatio, una convocatio visibile, una comunione che si attua e si esprime nella concretezza di una storia.

Non riguarda solo l'al di là, ma anche la vita presente: deve essere segno della Presenza dell'Eterno nel tempo, poiché essa è questa Presenza. In essa già si realizza quella comunione tra gli uomini, immagine e somiglianza in Cristo della comunione trinitaria, che si attuerà perfettamente e definitivamente alla fine dei tempi, nella vita eterna.

Concludiamo citando alcuni testi tratti da Cattolicismo.

«Grazie al vincolo della carità reciproca, la Chiesa di Cristo possiede una così forte coesione, che è una nelle pluralità dei suoi membri, e nello stesso tempo misteriosamente tutta in ogni singolo» (S. Pier Damiani).

«Come un solo pane è fatto con molti chicchi, ed è prima bagnato, macinato e cotto per diventare pane, così il Corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa, formata dall'unione di molte persone come da altrettanti chicchi di grano, è bagnata dall'acqua del battesimo, è macinata tra le due mole dei due testamenti..., è cotta infine con il fuoco della tribolazione, per meritare di essere il Corpo di Cristo» (Simone di Tournai).